Articoli su Giovanni Papini

1933


Jaures Busoni

Giovanni Papini parla del suo libro su Dante

Pubblicato in: Corriere Emiliano (Gazzetta di Parma), anno XI (anno 178, n.91), p. 3
Data: 16 aprile 1933




   E' uscito un nuovo libro di Giovanni Papini: un libro su Dante intitolato Dante vivo.
   Il nome dell'autore, la poderosità dell'argomento, il fatto che il volume sia apparso nelle vetrine dei librai senza che nessuna indiscrezione lo abbia preceduto, non solo, ma senza che neppure si fosse saputo che Papini stava lavorando intorno ad un soggetto simile, hanno suscitato subito un senso di curiosità e di attesa e il desiderio vivo di avere qualche notizia dell'opera prima di poterla leggere.
   Rendendomi interprete di questo sentimento ho sollecitato un'intervista con l'insigne scrittore ritenendo che egli avrebbe acconsentito a dirmi qualcosa della sua nuova fatica. Né mi sono ingannato. Mercè i buoni uffici della Libreria Editrice Fiorentina — che stampa il volume — Giovanni Papini ha cortesemente aderito al mio desiderio.
   Era la prima volta che avevo occasione di parlare con Papini. L'avevo visto, talvolta, passare assorto e squinternato, per strade fiorentine o, da lontano, in sale adibite a riunioni letterarie. Nell'imminenza di trovarmi ora faccia a faccia con lui, io attendevo con una certa trepidazione nell'ampia sala dalle pareti completamente coperte di libri allineati negli alti scaffali, nel suo tranquillo appartamento di via Giovan Battista Vico. A suscitare la trepidazione valevano tanto la coscienza dell'indubbia importanza dell'uomo quanto la singolarità del suo carattere, noto per la sconcertante sincerità irta di bruschezze e di imprevisto così come i suoi libri di paradossi e originalità. Non per nulla uno dei suoi libri recenti si intitola «Il sacco dell'orco», ed è sua la definizione che anche «gli amici non sono che nemici coi quali abbiamo concluso un armistizio non sempre onestamente osservato». Mi consolava tuttavia il ricordo che un critico ebbe una volta occasione di rimproverare a Papini di essere troppo familiare con tutti e non saper «tenere le distanze».
   Ecco Papini: i capelli scomposti sulla fronte ampia rilevata e protesa, dagli occhi glauchi riparati dietro le lenti spesse; il rettangolo del volto terreo, segnato da due solchi dritti agli angoli della bocca, inclinato sul collo ove la camicia è fermata da un bottone, senza colletto come in una nota fotografia eseguita nel suo studio; l'alta persona chiusa in un corretto abito grigio indossato con trascuratezza. Affabile, pacato, gentilissimo, tanto quasi da meravigliami; tale non soltanto nelle convenzionali cortesie della ospitalità quanto nei modi e nella costanza dell'espressione. Non l'orco nè lo travagante o il paradossista alla nitroglicerina abituato nelle schermaglie verbali ad aggredire o stupire, ma un uomo sereno, chiaro, semplice, che sembra avere acquistato con una certezza la desiderata ed invidiabile limpidezza spirituale che par riflettersi anche nelle parole e nei gesti, influendo sul carattere.
   Sul principio sembra Papini l'intervistatore ed io l'intervistato. Evidentemente egli vuol rendersi conto della persona che ha di fronte. Ed intanto, prendendo occasione della identità del cognome e dell'antica parentela, trova modo di lamentare che in Italia nessuno abbia provveduto a scrivere un'opera riguardante un autentico genio musicale italiano: Ferruccio Busoni.
   Accenno alla curiosità suscitata dall'annuncio dell'imminente volume sul divino poeta, rilevando che se già la attesa è viva per ogni nuova opera di Papini che si annunci, in quanto egli ha abituato il lettore ad attendersi sempre da lui qualcosa di insolito e di originale nel campo del pensiero e della letteratura, questa volta l'interesse è più acuto dato che argomento del libro è un genio universale, il più grande figlio d'Italia. Ed a proposito ricordo che Papini, parlando altra volta di Dante, ha avuto occasione dì scrivere che, come le concezioni espresse e imposte da alcuni uomini superiori sul poema sacro continuavano l'opera stessa di Dante aggiungendovi la loro interpretazione che ci faceva vedere il poeta attraverso quella, così si doveva continuare l'opera di questi collaboratori dell'Alighieri trovando una interpretazione della sua anima e della sua opera superiore a tutte le interpretazioni precedenti. E concludo col domandare:
   — Qual'è, dunque, la sua interpretazione?
   Mi sono sopratutto proposto dl liberare la figura umana del poeta dal groviglio nel quale l'hanno irretito pedanti e retori. Postille e quisquilie dl casuisti, erudizione di filologi, glosse di maniaci da un lato, esagerazione di apologisti dall'altro avevano finito per nascondere la vera figura Dante, seppellendola sotto una polvere più spessa di quella dei secoli. Io mi sono proposto di rimetterla nella sua vera luce e far notare la figura viva: non il gigante sovrumano puro ed intatto ma l'uomo con le sue debolezze, i suoi errori, le sue ombre.
   — Quale via ha seguito?
   — Lo dice la composizione stessa del libro che è diviso in cinquanta capitoli e cinque parti. La prima, intitolata «Prolegomeni» è una specie d'introduzione che prepara alla comprensione di Dante ed ha accenni a polemiche, a ricerche, a questioni particolari e generali. La seconda si occupa de «La vita» con particolare riguardo ai momenti più importanti e luminosi di questa ed in relazione alla terza parte che è intitolata «L'anima» e vuol essere un'analisi psicologica della personalità spirituale del Poeta. Si tratta specialmente di esaminare poi anche attraverso «L'opera» della quale si occupa la quarta parte, fino a che punto Dante è cattolico e fino a che punto è cristiano.
   — E qual'è la sua conclusione?
   — Che Dante è cristiano come volontà, cattolico come aderenza al dogma, ma che per quanto la sua opera sia cristiana egli come uomo non è perfetto cristiano, e perfino, talvolta, quasi pagano. Ed a questo proposito sarà interessante notare il confronto che mi è sorto naturale fra il suo spirito e quello francescano col quale egli si trova in contrasto non ostante lo abbia cantato celebrandolo.
   — E quali le sue ombre umane?
   — Vari capitoli si occupano, appunto di queste ombre e ne trattano partitamente: la vendetta, la crudeltà, la superbia, ecc. Ma per meglio approfondire la conoscenza dell'uomo è interessante riguardare anche certe particolarità che sono state tutte più o meno trascurate e delle quali si occupano alcuni capitoli del mio libro: per esempio il grado di sopportazione della miseria, il suo sentimento per i fanciulli e, per poter meglio comprendere alcuni momenti decisivi della sua vita, un particolare che deve avere avuto invece in essa grande importanza contribuendo enormemente alla formazione del suo carattere: l'essere stato egli orfano ed aver sentito cocente l'inappagata nostalgia dei genitori mancanti.
   — E a riguardo dell'opera?
   — Come le ho detto me ne occupo nella quarta parte del libro nella quale ho esposto alcuni punti di vista nuovi riguardanti la «Divina Commedia» ed inerenti tanto a particolari quanto alla genesi ed al significato del poema.
   - Per esempio?
   — Riguardo a particolari, per esempio, intorno alla profezia del Veltro e del Dux. Anzitutto lo sostengo si tratti di due profezie separate anche perché quella del primo canto dell'Inferno fu a troppa distanza d'anni pensata e scritta da quella del Purgatorio, da poter far supporre vi possa essere adombrata un'identica persona, un potente, imperatore o condottiero, che potesse mantenere la speranza di Dante. Penso, dunque, che il Veltro non possa identificarsi col «Dux». E riprendo suffragando, s'intende con nuovi argomenti, un'ipotesi già accennata: quella che il Veltro sia lo spirito Santo e quindi la speranza della sua venuta, la speranza della discesa dello Spirito Divino in terra.
   — E riguardo al significato?
   — Per me la «Divina commedia» non è soltanto un'opera puramente letteraria e poetica e neppure dottrinale, anche se tutto questo insieme. Ma essa è sopratutto un atto poetico volto alla trasformazione degli uomini. Dante, più che a una sistemazione politica per la quale pure ha elaborato concetti di valore universale, credeva alla possibilità del miracolo desiderato; operava convintissimo in tal senso e la sua opera deve intendersi come tentativo di azione demiurgica.
   — Quindi esclude che Dante possa considerarsi come un appartenente a sette segrete o come un riformatore?
   — Assolutamente. Io non sono di tale scuola e nella sua opera riconosco invece un grande atto di fede.
   — E in quanto all'attualità di Dante?
   — Me ne occupo nella prima parte del libro. Dimostro che Dante non è da considerarsi soltanto del medioevo ma proprio attuale, d'oggi, e che può sempre insegnare non soltanto come poeta.
   — E dell'amore per Beatrice ne parla nel libro?
   — C'è un capitolo anche per quello. Credo alla realtà dell'amore e della donna senza preoccuparmi se sia o no la Portinari. Ma affermo anche che è sorprendente il grado di trasfigurazione spirituale, che giunge quasi alla deificazione, che Dante opera di questa donna dopo la morte. Poeti anteriori a lui avevano cercato di trasfigurare l'amata, ma nessuno era arrivato al punto al quale Dante giunge, cioè a fare di Beatrice quasi una vera e propria semidea: cosa sorprendente, per l'epoca, anche dal punto di vista cristiano.
   — Come si è deciso a scrivere questo libro su Dante?
   — La figura del nostro sommo poeta mi ha sempre interessato. Lei ricordava poco fa un mio scritto su Dante inserito in «Ventiquattro cervelli». Mi permetta ricordare anche altri miei scritti sull'Alighieri e il volumetto sulla leggenda di Dante stampato nel 1910 dal Carabba. Non sono stato ispirato quindi da un'improvvisazione ma ho seguito un'antica attrazione spirituale.
   — Come considera Dante, in confronto ad altri grandi genii stranieri?
   — Non si possono istituire confronti del genere. Il solito parallelo Dante-Shakespeare, Dante-Goethe non ha senso. Si possono paragonare e cercare i punti di contatto delle mediocrità. Ma ì grandi non hanno caratteri di somiglianza. La caratteristica del genio è proprio quella di non somigliare a nessuno.
   — Vorrebbe dirmi che impressione le ha fatto il successo ottenuto anche in America dalla sua «Storia di Cristo» presso un popolo che sembra occuparsi quasi esclusivamente delle questioni della vita, pratica?
   — Ritengo abbia influito proprio il contrasto fra la vita pratica e il richiamo alla vita spirituale. Ma anche la verità che, nel fondo dell'anima del popolo americano c'è un contenuto di religiosità che più facilmente si ridesta perché posseduto da un popolo giovane. Anche la conoscenza della Bibbia, che nei paesi anglo-sassoni è assai estesa, può avere avuto la sua influenza in quanto ci si appassiona di più alle cose che si conoscono che alle cose nuove. Specialmente però mi ha fatto piacere saper letta e gradita la mia «Storia di Cristo» tanto dai cattolici quanto dai protestanti. Ciò dimostra che le verità del Vangelo sono superiori alle dolorose divisioni dei fratelli e che per ritrovare l'unità dei cristiani, quella unità, che anche il Santo Padre tanto desidera ed auspica, il miglior modo è quello di rifarsi alla vita di Cristo ed al suo insegnamento.


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